Qualcuno disse che il nostro è anche un Paese di santi, ai quali spesso sono intestati strade, paesi, chiese. Scelte molto remote, dettate sicuramente da una forte fede e credenze cristiane.
La storia di questo minuscolo borgo ha luogo in Valmarecchia, Appennino Riminese, quando da Monte Ercole si staccò un frammento di roccia arenaria che rotolò fino a fermarsi nel punto in cui si decise poi di erigere una “Collegiata” dedicata alla martire siciliana Sant’Agata.
La Chiesa risale al X sec., ma i mattoni della cripta, in essa contenuta, furono cementati già nel VII sec. Poi nel Cinquecento, la struttura fu ulteriormente ritoccata grazie ai Fregoso, famiglia nobiliare genovese che legò il suo nome a queste valli per questo e altri motivi, oltre ad un duraturo gemellaggio con il capoluogo ligure. Attorno alla chiesa, prese vita l’insediamento umano che oggi conosciamo come Sant’Agata Feltria.
Fino al 2009, qui eravamo nelle Marche, in provincia di Pesaro Urbino. Poi, attraverso scelta referendaria, il piccolo Comune montano decise di traslocare in Romagna, regione con la quale probabilmente condivide maggiormente usi e costumi.
Immersa nel silenzio dei suoi 600 metri d’altezza sul livello di quel mare di cui invece fatica a condividere le chiassose spiagge dell’attuale suo capoluogo Rimini, distante neanche 50 chilometri.
Siamo giunti da nord imboccando da Ravenna quella che, con i suoi 250 chilometri, è considerata la più lunga superstrada italiana. La “Tiberina” o “E45” percorre l’immensa “Valtiberina” che coinvolge ben quattro regioni: Lazio, Umbria, Toscana e Romagna.
Da Sarsina, dove siamo usciti, in una tortuosa mezz’ora siamo approdati a Sant’Agata. È di un blu immacolato il cielo che sovrasta le alture intorno e il clima è decisamente mite per il periodo, considerando che è l’ultima domenica di ottobre.
È una benedizione quest’anomalia meteorologica che ci permette in tutto comfort di visitare la 38° edizione della “Fiera Nazionale del Tartufo”. Parcheggiamo proprio all’ingresso in paese e, da sotto, diamo un primo sguardo ai tratti somatici caratteristici dei borghi montanari: un ordinato manipolo di casette marroni fatte di sassi diligentemente incollati che si arrampica fino in cima al monte.
C’è aria di festa in giro, le foglie di aceri querce e castagni sono state smerigliate da un autunno stranamente fin troppo caldo e gentile. Ambulanti orgogliosi espongono le preziose mercanzie alimentari tipiche delle zone e il protagonista, ovviamente, è lui il “tuber magnatum pico” per i più tecnici, il tartufo bianco. La sua presenza è tradita dal particolarissimo odore sprigionato in aria che, se non fosse per la risaputa raffinatezza che aggiunge a carni e minestre, non preannuncerebbe alcuna bontà. Come dire: se l’abito non fa il monaco, neanche l’odore fa il sapore.
Oltre a sottoli e conserve, non mancano i dolci di queste terre, sua Maestà il “Bombolone” in primis. Ne mangiamo uno grosso come un hamburger, insufflato fin quasi esplodere di crema pasticcera e servito ben caldo dopo essere stato cosparso di polvere di zucchero.
Ora abbiamo in corpo la giusta carica glucidica per affrontare la pendenza che ci condurrà nell’antico nucleo di Sant’Agata Feltria. Subito pittoresca Piazza Garibaldi, cornice fuori dal tempo dove si affacciano diversi caffè e il singolare “Teatro Angelo Mariani”, costruito interamente in legno nel Seicento, internamente simile al favo di un lussuoso alveare.
Vogliamo raggiungere la vetta di questo piccolo borgo, che presta le sue fondamenta all’imponente Rocca Fregoso, risalente all’anno Mille. Nel corso dei secoli passò di mano in mano, di feudale in feudale, fino ad essere assegnata ad uno dei Fregoso, tal Ottaviano, come premio da parte papale per le battaglie condotte contro Cesare Borgia nel 1506. In questo periodo conobbe le migliorie che la resero un gioiello residenziale.
Tornò ancora tra i possedimenti ecclesiastici e funse da scuola, convento, galera, pretura tra l’800 e il secolo scorso. Finché, nel 1961, la storia del pezzo di pietra che si stacca si ripete ancora, ponendo in pericolo la stabilità del maniero, poi rimessa a posto negli anni a seguire.
In questi giorni gli stanzoni della fortezza sono occupati da una mostra sulle fiabe più celebri. Pur essendo ormai abbastanza adulti e la rassegna sia dedicata ai più piccoli, decidiamo di visitarla cogliendo l’occasione per esplorare internamente la struttura.
Le varie stanze sono state allestite in modo tale da creare un interessante itinerario di favole raccontate mediante strumentazioni multimediali di ultima generazione.
Quando usciamo ci verrebbe voglia di bere un calice di vin brûlé masticando due castagne di stagione, ma siamo ancora nelle grazie di Elio e tra le mura di questo deliziosa chicca medievale spersa nei monti, un gentile tepore ci fa desistere dall'idea.
Torneremo a dicembre, quando forse sarà più freddo, curiosi di respirare le atmosfere magiche di ciò che diventerà il “Paese del Natale”.
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