Già in lontananza si odono i campanacci delle renne di Babbo Natale e il palinsesto del cinema serve il suo classico menù delle feste: l’intramontabile cine-panettone oppure il cartoon-film last generation o ancora la tradizionale commedia amara dal finale dolce della riunione di famiglia.
Del resto, ogni stagione porta le sue peculiarità. E anche ogni periodo storico, soprattutto quest’ultimo che ha fatto letteralmente deflagrare il pianeta dei “pay per view” o “tv on demand”. Tempi contingenti hanno reso difficili quelli per il cinematografo, a lungo messo sotto chiave per via di restrizioni legate all’emergenza sanitaria.
Personalmente quasi avevo scordato il piacere di fare la fila dal bigliettaio e, armato di popcorn e coca-cola, stravaccarmi davanti ad un monitor grande quanto la facciata di una casa.
E sono estremamente felice del fatto che, nonostante le amputazioni praticate in due anni in nome di un superiore interesse collettivo, la Settima delle Arti mi sembra, per dirla in paronomastico, attualmente più in “sesto” di prima.
Così in forma da diventare sempre più spesso “arte che narra d’arte”, tanto da convincermi a concedermi una “doppietta” al botteghino distanziata da un brevissimo lasso di tempo. A questo proposito, tornare tra quei filari di sedili morbidi è stato quasi come sedere ancora tra quelli duri di legno delle aule di scuola, quando per la prima volta udì i nomi di certi storici personaggi.
Come, ad esempio, tal Luigi Pirandello di cui Roberto Andò ha raccontato nel suo “La stranezza”, commedia “biopic” intrisa di melodramma e comicità, interpretata dal duo “Ficarra & Picone” nei panni di una coppia di furbi impresari della profonda Sicilia e dal talentuoso Toni Servillo nelle vesti del celebre commediografo siciliano.
Oltre a vari divertenti sketch, il film ripropone quella stereotipia e costumi sociali di inizio XX secolo, tanto simile a quella che tuttora si ripete in alcuni contesti del Bel Paese: prevaricazioni di genere, gossip di paese, inefficienze delle amministrazioni pubbliche, sudditanza nei confronti dei poteri forti.
Anche in questo caso, un sogno però accomuna questa storia di gente semplice. Una passione nascosta “dietro le quinte” di un’esistenza modesta, proprio le quinte del piccolo teatro di paese dove i due imprenditori, insieme al resto della compagnia di aspiranti attori, vorrebbero proporre la loro rappresentazione.
In quello stesso periodo, Pirandello torna da Roma per trascorrere qualche giorno in terra natia e proprio da quelle parti per porgere gli omaggi di compleanno a Giovanni Verga, altra grande celebrità e “penna” del tempo.
L’incontro tra questi due giganti della letteratura italiana è da brividi e lo scrittore rimprovera l’amico di aver “deviato” dal tracciato letterario solcato dai massimi esponenti dell’epoca.
Successivamente, in concomitanza di una visita al cimitero, l’illustre letterato Pirandello arriverà a contatto con i due impresari di cui prima, titolari di un’impresa di pompe funebri. Andrà ad assistere al loro spettacolo, il quale gli sarà di grande ispirazione per la stesura di una sua opera, in una complicata fase della sua vita personale per via dei problemi di salute della moglie.
Col titolo di “Sei personaggi in cerca d’autore”, Il futuro Premio Nobel per le lettere ripropose a Roma quello che accadde spontaneamente durante quella messinscena in Sicilia, quando scoppiò una violenta interazione tra pubblico e teatranti. Una vera e propria “stranezza”, un’”improvvisazione programmata”, nel classico modo di fare teatro che alla prima pubblicazione a Roma gli costerà feroci critiche. In seguito, quell’uscita dagli schemi sarà incoronata come il suo massimo capolavoro drammaturgico.
Il regista vuol far luce sulla genesi di quest’opera e, alla fine, gli riesce un film originale, una terra di mezzo tra realtà e finzione che poi diviene anche tra cinema e teatro. E il curriculum degli attori protagonisti, qui giunti dopo l’esperienza del teatro, ne ha sicuramente marcato questa peculiarità.
Ma in questi giorni, nelle sale, è in programmazione l’ultima produzione di un altro grande maestro del cinema italiano. La regia di Michele Placido, in un’epoca di decadenza e incertezze, segue l’attuale filone del riesumare eterne eccellenze e portarle sul grande schermo.
È inopportuno chiedere a chi è ispirato “L’ombra di Caravaggio”, un’altra lezione di storia dell’arte sulle gesta di un pittore che non necessita di presentazioni soprattutto a chi lo ricorda ritratto sui bigliettoni da centomila lire.
I fatti sono realmente accaduti e sono narrati attraverso gli occhi di un’”Ombra”, un inquisitore che la Chiesa del XVI e XVII sec. mise alle calcagna del celebre artista e assoldò per raccogliere quante più informazioni possibili sulla sua vita da persone che lo ebbero conosciuto.
Il materiale fornito avrebbe consentito di esprimere un giudizio di colpevolezza o condanna al Merisi, reo di comportamenti talvolta stravaganti e di uno stile artistico non conforme ai canoni ecclesiastici del tempo.
Vengono quindi ripercorsi alcuni frangenti della carriera del pittore legati all’eccezionalità di alcune delle sue pitture più celebri. Come la “Morte della Vergine”, la cui bellezza sconcertò il Cardinale Del Monte al punto da fargli esclamare di non aver mai visto una “morte più viva” di quella. Questo a prova delle simpatie nutrite da diversi esponenti del clero, se non addirittura dall’allora Papa Paolo V.
Un “genio e sregolatezza” che ha partorito capolavori immensi, servendosi di pose raccattate ai margini della società, tra i diseredati e reietti reclutati nelle giornate trascorse in totale dissolutezza con in tasca pennello ma anche coltello.
E su quelle tele, Michelangelo Merisi diede a questi poveri miserabili le spoglie di angeli e santi che, un domani, li renderanno immortali e ammirati per sempre.
Sul finale, anche l’inflessibile sgherro del Vaticano cede di fronte all’insindacabile grandiosità del pittore lombardo, ormai fuggitivo e ricercato in mezza Italia. Lo riesce finalmente a raggiungere a Porto Ercole e, dopo averlo avvisato che la lettera d’amnistia del Papa in suo possesso è un tarocco, gli propone un salvacondotto: canonizzare le sue opere e salvarsi oppure andare incontro alla pena capitale.
Merisi non cede al ricatto, per lui modellare a voleri superiori la sua arte equivarrebbe a rinunciare alla sua anima e per questo motivo viene consegnato ad un tagliagole che regola un vecchio conto con lui e lo getta cadavere in mare.
C’era da aspettarselo per uno che credeva in “Omnia vincit amor”.
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