Ho messo per iscritto questi brevi ricordi qualche mese fa, in occasione di una mia partecipazione ad un esercizio di scrittura a tema. E vorrei quindi condividere con voi questa esperienza che ha riportato alla luce immagini, volti, sapori ormai di repertorio, sepolti sotto le ceneri del tempo.
Che però, come carboni mai del tutto sopiti, si sono ravvivati al primo scuotimento.
Molti anni sono andati, eppure resiste ancora il nero dell’inchiostro di certe memorie sulle pagine del mio trascorso. Ingiallite forse, ma per fortuna ancora leggibili e difficili a dissolversi.
I nostri nonni fanno parte di un passato sempre più maturo, che pur diventando sempre più vecchio e distante, restano i nostri solidi ed eterni simulacri di saggezza. Sono come fari che prendendo il largo si rimpiccioliscono fino a trasformarsi in puntini appena visibili, ma comunque piantati nello stesso posto, piantati ad impedirci di sbattere sulla scogliera.
Se c’è una cosa che ricordo perfettamente delle loro case, questa è senza dubbio il caminetto, un accessorio evergreen protagonista di freddi inverni, nonché collante sociale e insostituibile stimolante di narrazioni e riflessioni.
Eravamo così increduli di fronte ai racconti di infanzie e giovinezze, di mondi così remoti riportati da quelle bocche sagge, che i nostri nonni ci apparivano quasi come eroi o creature mitologiche.
Quella loro gioventù si collocava in un travagliato momento storico, di cui poi ne dovetti studiare gli avvenimenti più tardi sui libri di storia. Per noi, virgulti allevati nel benessere, era davvero arduo comprendere un tipo di realtà così diverso dal nostro.
Dalla mia nonna paterna, secondo una tradizione ormai in disuso, ho ereditato la variante maschile del mio nome. La sua fu una casa in perfetto antico stile salentino. Alta e tozza, bianca come le lenzuola che metteva ad asciugare sul terrazzo. Un po’ come in certe isole greche. Per il carattere eccezionale delle nevi, a queste latitudini si costruiva così, senza il convenzionale tetto di tegole spiovente.
Le stanze di quella vecchia dimora dritta come una colonna, erano più alte che larghe e confezionate con l’ architettura a “volta a stella”, tipicismo edilizio esclusivo del luogo, col soffitto ad annodarsi come la carta di un cioccolatino.
La casetta si snodava secondo la forma di una “U”, con due porte d’accesso nei due punti di inizio e fine, poste ad un metro l’una dall’altra. Lungo il disegno di questa immaginaria lettera, correvano, disposte come vagoni di un treno, le varie stanze, infilate nell’ordine di cucina, camera da letto e bagno.
Stessa disposizione sull’ala parallela. A metà della “U”, un minuscolo giardinetto adibito a lavanderia - legnaia - pozzo luce, spezzava la concatenazione di camere.
L’arredo minimale e spartano, rispecchiava il pragmatismo e il riserbo dell’animo della donna che ci abitò. Nella piccola cucinetta, a fianco del televisore e sopra la storica cornetta “SIP” dalla tastiera bucherellata, la gigantografia in bianco e nero di mio nonno (che sfortunatamente non ho conosciuto), ripreso in una posa piuttosto seriosa con un robusto paio di baffi scuri, continuò a vegliarla anche nella sua lunga e fedele vedovanza.
Una difficile condizione che onorò sempre con pochi abiti rigorosamente scuri e che, da saggia massaia qual’era, lavò accuratamente spremendoli sulla tavolozza levigata nella “pila” del piccolo pozzo luce di cui scrivevo prima.
Dagli stipi, appesi ad altezza adulto, per ogni nipote ne estraeva il dolciume preferito : i “baiocchi” o le vaschette di nutella oppure ancora le “brioss” all’albicocca. E oltre alla distribuzione dei dolci “pani”, alla domenica c’era l’appuntamento con quella dei denari, equamente scuciti dal borsello in pelle a clic cloc.
D'altro canto, i miei nonni materni furono una coppia molto prolifica e, di conseguenza, ebbero una ben nutrita schiera di nipoti. Vissero in una casa più spaziosa rispetto a quella della consuocera, ma comunque costruita secondo canoni molto simili.
Lo schema era infatti sempre lo stesso: la porta d’accesso, sollevata mezzo metro da terra, affacciava direttamente su una strada piuttosto trafficata. Da lì iniziava un susseguo di stanze e, dulcis in fundo, si giungeva in un giardino degno di questo nome.
Proprio qui, in estate, si celebravano le adunanze domenicali del parentado comodamente assiepato chi su sedie di plastica cotta dal calore e chi sul muretto di pietra.
In autunno poi era tutta un’esplosione di odori e colori, le braccia degli alberi provate dal peso di grassi mandarini, arance e limoni. Con l’avvento della stagione invernale, le tradizionali assemblee domenicali venivano indette all’interno nella sala ricevimento della maison su soffici sofà in pelle oppure compostamente seduti sulle altolocate sedie delle grandi occasioni.
In sala da pranzo, la festa poi finiva a suon di forchette affondate nella teglia di pasta al forno fatta a pranzo e adesso ancora più buona di com’era appena sfornata.
Queste sono state le mie seconde case, dove ho conosciuto la semplicità, l’affetto, l’unione, la saggezza, la condivisione.
E scrivendo questa pagina, rivedo con piacere il bambino spensierato che ero, tra le braccia delle sue nonne.
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